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28 Giugno, 2022

Nelle ultime due settimane, l’Economist ha pubblicato tre articoli e dedicato un podcast alla Supply Chain: non possiamo esserne sorpresi.

La prestigiosa rivista si concentra sull’impatto attuale e futuro che le strategie di supply chain possono avere sulle economie mondiali e  – elemento non trascurabile direi – sui nostri portafogli.

Già tre anni fa l’Economist coniò il termine “slowbalization”: ben prima del covid c’erano segnali che mostravano un’inversione di tendenza rispetto a quanto era successo negli ultimi trent’anni.

A valle della caduta del muro di Berlino, della crescente apertura dei mercati al commercio internazionale e per effetto dell’ormai ampissima diffusione del container come strumento di efficientamento dei trasporti (ne riparleremo…), tutte le aziende avviarono o consolidarono processi di globalizzazione: si è ridisegnata la mappa della catena del valore su una scala planetaria, progettando, acquistando, producendo e vendendo dove conveniva. Questo trend, essenzialmente orientato alla massimizzazione dell’efficienza – e naturalmente dei ritorni sugli investimenti e dei profitti – hanno dato vita alle Supply Chain che conosciamo: lunghe, multilivello, complesse.

Il fenomeno, evidenziato da una crescita della quota di commercio mondiale dal 37% al 61% del GDP complessivo, ha portato grandi vantaggi alle imprese ma anche ai consumatori, rendendo più accessibili e più economici moltissimi prodotti.

Lo spostamento della produzione in paesi low cost ha poi permesso ai lavoratori di quelle aree di migliorare il loro tenore di vita (anche se altrove altri blu collar hanno perso il lavoro…) e – a loro volta – di consumare di più, alimentando la domanda complessiva.

Tali evoluzioni nella Supply Chain sono positive?

Purtroppo no: tensioni sociali nei mercati “maturi”, progressivo incremento del costo del lavoro nel Far East (in Cina si stima un incremento a fattore 5 nel giro di pochi decenni), rischi legati ad eventi naturali (terremoti, tsunami), sviluppo tecnologico (che rende sempre meno labor intensive la manifattura e la logistica, riducendo il vantaggio di produrre dove costa meno), per non dire dei rischi politici (protezionismo crescente e trade war), hanno mostrato i limiti della globalizzazione, portando ad un ripensamento della strategia di Supply Chain da parte di molte aziende già prima del covid.

Ma proprio il Covid, la guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica sembrano ora aver spinto le supply chain dal ripensamento alla vera e propria trasformazione fisica.

Quali cambiamenti si possono osservare? 

Nel breve termine, la volontà di mitigare i rischi ha prodotto un incremento generalizzato delle scorte: tutti hanno portato a casa più materiali, per assicurare una maggiore protezione dei flussi e disaccoppiare la produzione e la distribuzione da potenziale shortage di fornitura.

Naturalmente ingolfando le filiere – sia in termini di capacità produttiva che logistica – con un picco di bullwhip senza precedenti.

A livello di strategia di approvvigionamento, dal single sourcing ci si muove verso il multi sourcing: non necessariamente in geografie diverse, per mitigare rischi locali, ma anche solo per avere fonti alternative qualora la principale vada in sofferenza.

In termini di modello industriale complessivo – con effetti più lunghi, quindi – si comincia a parlare di reshoring, di regionalizzazione e di integrazione verticale.

Sul primo argomento, al momento i numeri non sembrerebbero mostrare una chiara tendenza al “rientro” della manifattura verso l’Europa ed il Nord America.

Certamente, però, si stanno valutando alternative alla Cina, sempre nel Far East o altrove (ad esempio molte aziende asiatiche stanno investendo in Messico per installare lì nuova capacità produttiva). Molti stanno valutando l’ipotesi di “replicare” le supply chain nei mercati, per renderle meno esposte alle difficoltà – quantomeno logistiche – che oggi stanno bloccando i flussi internazionali di materiale. L’automotive è invece il comparto industriale che al momento sembra più orientato al grande ritorno dell’integrazione verticale. Con una completa chiusura del cerchio, dopo aver criticato per decenni il modello industriale di Henry Ford (dalla miniera al concessionario, inclusi i servizi finanziari) ed aver visto i grandi car maker focalizzarsi verso il core business, affidando la componentistica e i servizi a terze parti (in nome di economie di scala, di maggiore specializzazione e possibilità di investire nello sviluppo dei prodotti da parte dei fornitori), oggi Elon Musk mette tutti di fronte ad un modello industriale molto più verticale: Tesla produce le batterie e controlla le miniere (non più per l’acciaio, ma per i metalli indispensabili alla trazione elettrica), vendendo le proprie auto in show-room propri. Un modello che molti stanno imitando (si pensi agli investimenti di Volkswagen in Germania, proprio per costruire le batterie vicino ai plant di assemblaggio).

Quindi, dall’efficienza alla resilienza, le supply chain stanno cambiando volto e i prossimi anni si preannunciano pieni di novità, con ricadute industriali e sociali davvero notevoli.

La conclusione dell’Economist

La conclusione dell’Economist – tutta politica, ma il bello di quella rivista è che non ne fa mai mistero – è di preoccupazione: la risposta industriale alle sfide della globalizzazione potrebbe portare ad un incremento generalizzato del costo dei prodotti (purtroppo la resilienza costa…) a svantaggio dei consumatori. C’è poi una risposta politica generalizzata: tutti i grandi paesi stanno tornando alla definizione di politiche industriali centrali (ad esempio in materia energetica, ma anche in termini di orientamento dei vari comparti, di incentivo/disincentivo, di dazi e tariffe) che sembravano tramontate con la globalizzazione.

Si vedrà. Ciò che si vede già, comunque, è la necessità di fare scelte giuste sulle strategie di Supply Chain ed è qui che la nostra comunità professionale è chiamata a dare il suo contributo. Buon lavoro.

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