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28 Giugno, 2019

Solo nell’ultimo mese mi sono capitati tre episodi che mi hanno fatto nuovamente riflettere sul tema del Supply Chain Management, sulla sua centralità all’interno delle organizzazioni e sull’importanza che sempre più gente d’azienda ne conosca i fondamentali in modo professionale.

A fine maggio sono andato a Chicago per un training di ASCM (Association for Supply Chain Management): si parlava di certificare l’eccellenza di una Supply Chain ed è bastato prendere in mano il modello SCOR (Supply Chain Operations Reference) e declinarlo anche ad un minimo livello di dettaglio, per imbattersi immediatamente nella natura cross funzionale – ma direi più ubiqua – della materia e nell’importanza del grado di una consapevolezza ampia in azienda sull’argomento.

Solo pochi giorni dopo ho visitato un prospect con il quale abbiamo affrontato il tema di un interessantissimo progetto di potenziamento della sua Supply Chain: uno dei limiti subito emersi rispetto alla situazione attuale è stato la consapevolezza che funzioni non denominate “Supply Chain” (in quel caso, Vendite e Acquisti) rafforzino la percezione di essere parte integrante del processo di Supply Chain Management. Chi vende deve proprio saper spiegare a sua nonna la differenza tra make to stock e make to order o tra push e pull? Per me la risposta è ovvia: si.

La scorsa settimana, invece, mi sono trovato a commentare insieme ad un giovane ingegnere gestionale il fascino di un progetto di Supply Chain Transformation: che tu sia un rookie o un professionista certificato, ti imbatti sempre sulla complessità delle implicazioni legate ad ogni singola scelta di chi fa questo mestiere. Le logiche di pianificazione e controllo della produzione, il sourcing, l’applicazione di concetti lean anche basilari hanno effetti immediati sul cliente e – un attimo dopo – sulla bottom line dell’azienda.

Chi oggi si pone il problema della competitività, della produttività, della crescita, della resilienza deve quindi sapere che tali performance – e non solo queste – girano attorno alla Supply Chain. Non a caso la letteratura insegna e l’esperienza conferma che, la vecchia idea secondo la quale la buona saluta di una Supply Chain sarebbe efficacemente rappresentata dall’assenza di lamentele da parte delle altre funzioni limitrofe, in realtà prefigura solo il primo e più elementare di quattro livelli di maturità: le Supply Chain più evolute sono quelle che contribuiscono o addirittura costituiscono il vantaggio competitivo. Non sono neutre né tantomeno freni per la value proposition, ma puntano direttamente alla soddisfazione del cliente. E non solo dal punto di vista della performance di prodotto (il suo valore intrinseco, come la freschezza di un frutto) ma anche – ad esempio – in termini di time value (“al momento giusto”) e place value (“nel posto giusto”). L’ho capito quando ho avuto bisogno di un farmaco di notte in Amazzonia o di un ombrello a maggio alla stazione di Santa Maria Novella.

Ho recentemente affrontato questi temi collaborando con una grande multinazionale, che sta rivedendo la sua tradizionale strategia di sourcing: utilizzando un approccio più globale e integrato, emerge subito la necessità di costruire una rete di relazioni (da quelle più tattiche a quelle più strategiche) che partano dalla “Voice of the Customer” e orientino di conseguenza la scelta dei fornitori, affinché siano capaci di integrarsi opportunamente nelle Supply Chain delle fabbriche. Un processo di network design, quindi, capace di mediare esigenze tipicamente contrastanti (lead time e stock, frequenze di consegna e ottimizzazioni logistiche, costo e servizio, solo per fare qualche esempio).

Ho sentito dire a molti guru che il Supply Chain Manager è, insieme al CFO, la figura che più di tutte è coinvolta end-to-end in tutti i processi chiave di un’organizzazione: gli esempi di queste ultime settimane – se ce ne fosse stato bisogno – confermano la correttezza di questa affermazione. E di conseguenza l’importanza di sviluppare (o talvolta purtroppo creare da zero) una consapevolezza aziendale più piena di tutto ciò. Obiettivo non limitato ai soli specialisti di area: si tratta di lavorare su competenze e abilità talvolta non nuove (quanta logistica dobbiamo agli antichi romani?), forse apparentemente scontate, ma ormai imprescindibili all’interno di tutte le funzioni delle nostre aziende.

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